AVELLINO – Uscito una prima volta nel 2018, questo indefinibile libro, che tuttavia il suo autore chiama romanzo, ritorna, in versione ampliata, in libreria per l’editore Rubettino, della cui collana Velvet abbiamo recensito mesi fa il bel memoir di Bianca Fenizia, I padroni del mare.
Marco Ciriello, nato ad Atripalda nel 1975 ma napoletano d’adozione, è giornalista e scrittore di molti e variati libri. Questo è formato da una successione di brevi profili di persone, avvenimenti o episodi della propria esistenza che, come preannuncia il titolo, è insieme una minaccia sempre procrastinata del padre nei confronti del figlio bambino e “un ritratto della città che promette sempre nel vago, e che parlava attraverso lui”. Come afferma lo scrittore Nicola Pugliese, fra un tiro di sigaretta di un’infinita serie di Pall Mall e una battuta sulla macchina da scrivere, Napoli si riconosce nell’assenza. “Di che?”, si azzarda a chiedergli il giovane giornalista che lo sta intervistando: “E questo lo devi scoprire tu”.
Forse, in questa enigmatica sentenza dell’autore di Malacqua, si cela l’invito a non accontentarsi delle risposte sbrigative o definitive sull’essenza di Napoli, città inafferrabile e totalizzante, che sembra contenere tutto e non appartenere a niente. Come in un teatro delle ombre, sfilano sulle pagine figure di peso e figurine senza importanza, fra nomi imbarazzanti e personaggi famosi, comparse fra la folla e individualità prestigiose. Si muore con grande facilità in quelle strade, specie se hai dato fastidio alle famiglie camorristiche, a cui ci si può avvicinare o con la temerarietà della giovinezza e della convinzione delle proprie congetture, o per sbaglio, per tradimento, per caso.
Alcuni nomi tornano e ritornano nel libro: quello di Giancarlo Siani, soprattutto, a cui dedica un verso di Pino Daniele (“poi qualcuno l’ammazzerà”) e molti ricordi e ricostruzioni di giornalisti e gente della malavita. Ma si avvicendano anche il mitico Maradona o un’inedita Pupetta Maresca, Raffaele Cutolo e i colleghi Carmine Spadafora e Francesco Palmieri. Come lui abusivi, nel senso di chi lavorava nei giornali di Napoli, il Grande (Il Mattino) e il Piccolo (Il Giornale di Napoli) eternamente senza contratto, mandati per strada a raccontare degli “sparati”, quasi sempre dentro macchine di cui la Mehari di Siani è diventata un simbolo e un feticcio.
È avvincente la scrittura di Ciriello, colta, piena di riferimenti letterari (La Capria e il suo Ferito a morte in primis), ma insieme ironica, con degli innesti dialettali buffi e azzeccati, piena di interrogativi esistenziali a cui cercare di dare delle risposte, ma anche scegliere di rinunciarvi.
Una Napoli nascosta, ritratta lateralmente, di sghembo, affrancata da stereotipi e luoghi comuni, dove la vita e la morte, protagoniste di un unico destino, si guardano senza timore, perché (Roberto Bolaño dixit): “Il mondo è vivo e a niente di vivo c’è rimedio. E questa è la nostra sorte”.
